Questo sulla serie tv Mo è un articolo di note a margine, la sezione del sito in cui il tema è sempre musicale ma non strettamente legato al programma radiofonico.

Da qualche anno il nostro modo di approcciarci alla cinematografia è decisamente cambiato e senza dover dare “colpa” alla pandemia, che tutt’al più ha incentivato tale processo già in essere. Il percorso di affezione sempre maggiore alle serie tv è conseguenza di quella trasformazione del nostro senso di spazio tempo per cui tutto deve essere veloce, l’attenzione non può andare oltre un tot di tempo per ogni situzione che prevede la nostra concentrazione.

Una bulimica produzione di materiale cinematografico legato a tale categoria di mini-film a capitoli con un inizio ed una fine per ognuno (in alcuni casi possono anche stare in piedi da soli) ha creato, anche in questo campo, quell’effetto imbuto che impedisce di filtrare lentamente ogni elemento in esso contenuto per valutarli singolarmente e capire cosa sia spazzatura e cosa no. In sostanza, rischiamo sempre di perderci i prodotti buoni in questo mare di melma.

Effetto che aumenta in chi, come me, non fagocita serie tv senza soluzione di continuità preso dalla smania del dover avere tutto ma al contrario: più vedo troppe cose tutte insieme (vale per qualunque aspetto della vita), più me ne allontano quasi disgustato da queste produzioni ipertrofiche senza senso (anche se, un senso ce l’ha e si chiama capitalismo).

Vince ancora la qualità sulla quantità

Risultato? Guardo poche serie tv, spesso molto tempo dopo la loro uscita quando il caos di mille voci intorno si calma, ma quando succede è perché mi ispirano veramente tanto e nel 98% dei casi mi rimangono in testa. Rimango sostanzialmente quello che sono, un uomo la cui adolescenza è coincisa con quel periodo storico ancora immerso più nella qualità che nella quantità.

Mo, una serie del 2022

Sono certo che molti di voi l’avranno già vista e quindi mi rivolgo a quella pletora di fiere lumache da serie tv come me perché Mo, ideata e prodotta da Mohammed Amer, comico americano di origini palestinesi molto conosciuto negli USA, è stata capace di tenermi incollato come poche hanno fatto e aspetto con ansia la seconda e ultima stagione. Due le ragioni: la musica (guarda un po’), e il tema politico e sociale trattato.

La trama (in breve)

La storia ha semplici connotati atti a dare maggior respiro ad una lettura più approfondita del tema centrale, senza perdersi nei meandri di una trama molto fitta e permettendo una visione più rilassata tra momenti di riflessione e ironia utile a colorare con una vena tragicomica alcuni aspetti ancora oggi molto attuali: il fenomeno migratorio, il tema dei rifugiati politici, l’integrazione.

Mo è di origine palestinese, vive da oltre vent’anni a Houston in Texas con sua madre ed il fratello, si divide tra il tentativo costante di onorare le morte del padre prematuramente scomparso e le difficoltà nell’ottenimento della cittadinanza americana. Dall’altra parte c’è Maria, una ragazza messicana e fidanzata di Mo.

Una sola razza, una sola storia

Legato a questo semplice filo narrativo, il racconto dei problemi affrontati da quelle comunità, spesso l’ossatura della società americana basata sul lavoro come status di liberazione, sottoposte a discriminazioni, banalizzazioni culturali figlie di un’idea colonialista che riunisce individui provenienti da grandi territori di cui si ignora storia, cultura e geografia in un’unica grande razza (in più scene Mo viene confuso come pakistano o indiano). Temi razziali che coinvolgono quelle stesse minoranze etniche sottoposte a denigrazioni ma a loro volta succubi di schemi riflettenti il classico stereotipo sulla gravità di un “annacquamento” della progenie attraverso matrimoni tra persone non appartenenti allo stesso lignaggio. Una scala sociale dentro la scala sociale in cui qualcuno dev’essere sempre l’ultimo: Maria denigrata dalla stessa madre di Mo che rivendica l’appartenenza ad una razza superiore rispetto a quella messicana a cui la prima appartiene.

Temi e sottotemi che si intrecciano continuamente in un racconto molto lineare ma capace di creare appendici utili a riflessioni ulteriori sostenute da una colonna sonora affidata a Common, Karriem Riggins e Patrick Warren per le musiche originali e la supervisione di Suhell Nafar nella scelta di canzoni edite.

Vi lascio qui la colonna sonora originale e una playlist da me creata con i brani che più mi hanno colpito della serie.

Buon ascolto e buona visione.

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